– a cura di Filippo Del Monte- Due giorni intensi per la diplomazia internazionale a Vienna: ieri si è svolto il vertice interministeriale sulla Libia ed oggi si aprirà quello sulla Siria. Mentre la situazione nel Paese levantino si fa sempre più intricata e ci si avvia verso una spartizione per zone d’influenza, nella nostra ex colonia gli schieramenti che si fronteggiano si stanno palesando.
Il governo libico di unità nazionale guidato da Fayez al-Sarraj non è riuscito ad imporre la sua autorità sull’intero Paese. A remargli contro non sono soltanto le più estremiste milizie tripoline, ma anche il gruppo dirigente politico-militare di Tobruk. Infatti l’esecutivo della Cirenaica vorrebbe evitare la presenza di truppe occidentali in Libia e quindi non può appoggiare un governo che ha subito richiesto il sostegno internazionale. Contraria ad ogni compromesso od intromissione straniera, la linea seguita da Tobruk è proprio quella che gli “interventisti riluttanti” hanno etichettato come un segnale chiaro dell’ostilità che i libici nutrono verso qualunque possibilità di boots on the ground degli europei. Il generale Haftar, uomo forte a Tobruk, ha lanciato un’offensiva contro Sirte per sradicare la filiale libica del Califfato. Se questa delicata operazione fosse coronata da successo, Sarraj sarebbe totalmente depotenziato e Tobruk potrebbe di nuovo dettare le regole del gioco. Questo scenario favorirebbe non solo Haftar – che vedrebbe così aumentare le sue quotazioni in Cirenaica rispetto ai sostenitori di un accordo con Tripoli – ma anche Egitto ed Emirati Arabi Uniti, suoi diretti sostenitori e finanziatori. Ad una vittoria di Haftar corrisponderebbe un passo indietro per la Libia perché rafforzerebbe una frazione e non un esecutivo in grado di rappresentare la volontà generale.
Altro fattore da non sottovalutare è il ruolo disgregante ed ambiguo di Francia e Gran Bretagna: da Benina agenti franco-britannici assicurano il loro sostegno ad Haftar rafforzando l’opposizione a Sarraj, mentre all’ONU i diplomatici di Parigi e Londra chiedono di dare appoggio al governo di unità nazionale. Ad un occhio attento non sfuggirà che i reali obiettivi di Parigi e Londra in Libia siano stabiliti a Benina e che al Palazzo di vetro vada in scena un losco tentativo utile per prendere tempo e tenere sotto scacco quanti, come Roma, hanno puntato fin da subito sulla costituzione di un governo unitario. Il sostegno dato ad Haftar da Francia, Gran Bretagna ed Egitto sta raggiungendo lo scopo di demolire pezzo dopo pezzo la credibilità di Sarraj ma ha intenti futuri diversi: uno di conservazione e l’altro di cambiamento dello status quo post-2011. I franco-britannici puntano a mantenere i vantaggi conquistati con la vittoriosa guerra di cinque anni fa contro Gheddafi e ad assicurarsi che alcuni attori (Italia compresa) non riescano a mettere piede in Libia di nuovo. Al-Sisi – vero deus ex machina della politica di Tobruk – vorrebbe invece fare della Cirenaica un “satellite” del Cairo oppure – obiettivo minimo – un “cuscinetto” con il quale evitare il contatto diretto con l’instabile Tripolitania. La visione egiziana del futuro libico è quella che più si avvicina al piano degli “spartizionisti” occidentali ricamato sul vecchio Piano Sforza-Bevin del dopoguerra. Quella “spartizionista” è una corrente minoritaria nell’ambito dell’interventismo europeo legata principalmente al circuito dell’industria energetica (l’ENI ad esempio sostiene questa teoria).
Se al Cairo non conviene avere alla frontiera una Libia divisa in zone d’occupazione nelle mani degli europei, allo stesso modo non conviene nemmeno una Libia unificata da un governo che non risponde agli ordini di al-Sisi; ecco la ragione del sostegno incondizionato ad un attore disgregante come Haftar. Giocare la carta dell’appoggio a Tobruk significherà per Egitto, Francia e Gran Bretagna fare pressioni per un inserimento ufficiale di Haftar tra gli interlocutori. Se ciò avvenisse si potrebbe intonare il requiem alla linea di pacificazione nazionale di Sarraj. Con tali premesse diventa chiaro che il raggio d’azione per l’Italia si stia restringendo nonostante il sostegno – per altro blando e poco interessato – degli USA. Per uscire da quello che si prennuncia come un impasse, a Roma converrebbe serrare i ranghi con Tunisia ed Algeria in favore di Sarraj (per il quale non poco si è speso Paolo Gentiloni) e contro ulteriori frazionismi. Ogni ritardo accumulato nel rafforzamento della potestà governativa libica equivale all’inasprimento di una situazione politico-militare ed umanitaria ormai diventata ingestibile sulle sponde mediterranee. Un sostegno più forte all’opera di Sarraj sarebbe un importante segnale da lanciare agli alleati anglo-francesi ed anche all’Egitto, con il quale ormai siamo ai ferri corti dopo le ultime vicende del caso Regeni.
Dare man forte a Sarraj aprirebbe la possibilità di intervenire militarmente e tagliare le gambe tanto all’espansionismo egiziano (che a quel punto sarebbe messo dinanzi al fatto compiuto), quanto ai disegni dal sapore neo-coloniale ed anti-italiano di Parigi e Londra (che non potrebbero rifiutare il sostegno a Roma una volta presa la decisione di intervenire sotto egida internazionale). Del resto il sostegno ad un governo di unità nazionale, guidato da Sarraj o da chiunque altro, non porterebbe al raggiungimento della stabilizzazione e della pacificazione ma sarebbe propedeutico all’ottenimento dell’autorizzazione ad intervenire; perché rebus sic stantibus solo una coalizione internazionale a guida italiana e pronta ad operare in Libia sul lungo periodo garantirebbe la stabilità. Costruire un futuro per i libici che non abbia i colori della bandiera egiziana o le sembianze degli sciacalli franco-britannici è un dovere per l’Italia ed il modo migliore per tutelare i propri interessi politici, strategici ed energetici in quell’angolo di Mediterraneo.