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 – di Filippo Del Monte –

Anche quest’anno siamo pronti alle polemiche che puntualmente accompagnano le celebrazioni della “Giornata del Ricordo” per le vittime delle Foibe. Come al solito la sinistra comunista, erede (almeno così dice di essere) dei partigiani, leverà gli scudi in difesa dei valori antifascisti, come se commemorare dei connazionali barbaramente uccisi equivalesse a mettere in discussione la resistenza partigiana. Insomma, ogni 10 febbraio il clima – che dovrebbe essere di concordia nazionale – è avvelenato dall’atmosfera pesante di un dopoguerra che si stenta ad archiviare.

Eppure il buonsenso inviterebbe a storicizzare le vicende legate alle foibe ed all’esodo giuliano-dalmata, quanto meno perché i morti non hanno colore o bandiera e perché tra le vittime dei partigiani titoisti – ma forse questo ai “benpensanti” sfugge – c’erano non pochi partigiani italiani delle “fiamme verdi”, delle brigate Matteotti e (perfino) delle comuniste brigate Garibaldi. Se Tito fosse stato considerato come un liberatore dagli italiani giuliano-dalmati non si spiega l’accanita resistenza militare condotta da unità miste di partigiani e militi della RSI per evitare che gli jugoslavi sfondassero il nostro confine orientale. Non è giustificabile la violenza titoista accampando perennemente la “scusa” dei crimini di guerra italiani nei Balcani. Se si dovesse ragionare con la legge del taglione allora i popoli europei avrebbero dovuto sterminare i tedeschi e gettare sale sulle loro città alla fine del conflitto. Sui crimini jugoslavi la doppiezza di certa sinistra è insopportabilea ed incomprensibile. Francamente risulta difficile trovare delle differenze tra Josif Broz “Tito” ed Erich Priebke, eppure il primo ha la patente di “liberatore” ed il secondo quella di “criminale”. Dalle pagine della Storia però emerge un’amara (per la sinistra) verità: sono entrambi criminali.

I morti delle foibe, che siano essi fascisti o antifascisti, italiani o slavi, meritano lo stesso rispetto tributato alle altre vittime dell’odio ideologico. Stupisce che proprio in Italia, con la sua opinione pubblica paladina dell’uguaglianza e dei diritti per tutti, si neghi una degna “sepoltura storica” agli infoibati. Si “infoiba” la Storia per non andare ad intaccare il mito resistenziale unitario che era già intaccato all’origine ed è presto detto perché. I partigiani francesi avevano mire su alcuni territori del nostro confine occidentale così come quelli jugoslavi sul confine orientale. Mire a cui non raramente i partigiani italiani si opposero pagando tale resistenza con il sangue. Dunque viene da pensare che forse, dico forse, i partigiani jugoslavi più che alla liberazione dal nazifascismo puntavano alla costruzione della “Grande Jugoslavia”. L’intera dottrina politica titoista, totalmente avulsa dall’internazionalismo proletario, conduce a questo. Il collante ideologico delle formazioni partigiane titoiste era più il panslavismo che la rivoluzione proletaria. Con tali premesse risulta oggettivamente difficile trovare forti collegamenti tra i movimenti di resistenza europei.

Tanto le mire espansionistiche quanto l’odio razzistico-ideologico dei titoisti erano conosciuti da tutti, anche dai comunisti italiani. Non è un caso se nel 1948, al momento dello “strappo” tra Mosca e Belgrado, il capo dei comunisti triestini Vittorio Vidali – già volontario antifascista nella Guerra di Spagna, agente dell’NKVD sovietico ed eroe della Resistenza in Italia – constatò amaramente che tutti gli italiani, a prescindere dalla fede comunista, sarebbero stati vittime di eccidi qualora Trieste fosse stata ceduta alla Jugoslavia. Con le parole di Vidali cade anche l’ultima barriera difensiva di quanti si ostinano, anche di fronte a documenti inoppugnabili, a definire Tito come “liberatore”. Il leader della resistenza jugoslava non fu nulla di più che uno scaltro e sanguinario politico che ebbe la fortuna di avere gli amici giusti al momento giusto e di trovarsi dalla parte giusta in quel carnaio che fu la Seconda guerra mondiale.

L’Italia ha pagato anche troppo duramente la sua partecipazione alla guerra ma sarebbe ora che tutti quelli che si ostinano a sputare sugli infoibati nel nome di un odio ideologico antistorico ed inumano chiedano scusa. Scuse dovute ai Guglielmo Oberdan, ai Nazario Sauro, ai Fabio Filzi, ai Francesco Rismondo, ai giovani martiri di Trieste 1953, a tutte le Norma Cossetto ed a quanti hanno donato la loro vita per quell’italianissima “Marca Orientale” trasformata in territorio jugoslavo a colpi di fucile. Scuse dovute a tutti gli esuli che ritrovatisi senza una casa fuggirono in Italia convinti di trovare accoglienza dalla Madrepatria ma trovando in realtà una “matrigna” pronta solo ad accusarli ingiustamente di fascismo. La conclusione più giusta di questo ragionamento non possono che essere  le parole dell’on. Renzo De Vidovich: “A Muggia termina la Repubblica Italiana, ma l’Italia continua!”.