– di Francesco Severa – Trovo abbastanza inutile aprire una discussione intorno alla assai scarsa ragionevolezza della decisione, presa in una scuola di Rozzano, comune alle porte di Milano, di trasformare la tradizionale esibizione canora dei bambini in occasione del Natale in un più anonimo e laico “concerto d’inverno”, allietato dalle musiche di Sergio Endrigo, per evitare di tenere un concerto farcito di canzoni dai ritmi clericali – “Tu scendi dalle stelle” sa troppo di preti e incenso – che rischiava dunque di tradire una mancanza di rispetto per le diversità. Il preside ha dichiarato che la decisione è stata motivata dal fatto che a scuola ogni momento deve essere condivisibile per i bambini di qualsiasi cultura e che nulla deve creare imbarazzo o disagio a qualcuno. Praticamente è come se si dicesse ad una ragazza bionda di tingere i suoi capelli, in quanto quel colore, che con tanta superbia imita il sole, mette in imbarazzo le ragazze con i capelli mori. Ma piuttosto che sottolineare la palese irrazionalità di chi pensa che accoglienza, dialogo, pace siano sinonimi di annullamento delle identità; di chi canta a squarciagola “Imagine” di John Lennon, senza pensare che immaginare un mondo in cui “non ci siano nazioni…niente per cui uccidere e morire…nessuna religione”, equivale ad immaginare un mondo in cui le differenze tra un Uomo ed una scimmia finiscano per ridursi a nulla; di chi pensa che il dialogo si debba costruire su uno strampalato sincretismo religioso e culturale – un multiculturalismo suicida – invece che sulla reale volontà di un sincero riconoscimento delle differenze, che solo può generare tolleranza; vorrei spendere qualche riflessione sul motivo per cui, oggi più che mai, sia necessario celebrare e fare memoria di una ricorrenza così dolce come il Natale.
E’ evidente che questa festa, essendo innanzitutto una festa cristiana, ha un preciso significato religioso: l’Onnipotente che, davanti all’Uomo che gli chiude in faccia le porte del cuore, decide di entrare dalla finestra. Dio che ama così tanto l’umanità, da non attendere che sia essa ad andargli incontro, ma da farsi lui stesso uomo, anzi di più, bambino. Qui sta il grande privilegio di un cristiano: vedere l’essere più potente dell’universo nell’innocente sorriso di un bimbo. Ma a prescindere dalla sua origine sacra – come se fosse possibile parlarne senza considerare tale origine -, il Natale è divenuto per noi occidentali una festività storica, una tradizione. Qualcosa che ci appartiene in quanto testimonia lo spirito più profondo del nostro essere. E’ una piccola campana nella nostra testa, che precisa, ogni anno, viene a ricordarci col suo suono festoso che tutta la nostra civiltà si fonda sull’idea che l’Uomo non sia semplicemente un’ottusa creatura chiusa nei suoi avari interessi materiali, ma che al contrario sia un essere spirituale unico e irripetibile. E che dunque la vita e la libertà siano strumenti imprescindibili per potersi definire “vivi”. Ci definisce il Natale, raccontandoci chi siamo; ci racconta di come per millenni gli uomini dell’ovest si siano riconosciuti non solo in una certa idea di Uomo, ma anche in una certa idea di convivenza. Il Natale è “l’unico periodo che io conosca, in tutto il lungo calendario di un anno, nel quale gli uomini e le donne sembrano essere d’accordo nello schiudere liberamente i loro cuori serrati e nel pensare alla gente che è al di sotto di loro come se si trattasse realmente di compagni nel viaggio verso la tomba, e non di un’altra razza di creature che viaggia verso altre mete”, fa dire Dickens al nipote di Scrooge in “Ballata di Natale”. Ecco allora che a Natale ci riscopriamo comunità, società, civiltà. Ed allora non è forse in un momento come questo, in cui subiamo un attacco così forte alla nostra identità, che il Natale può rappresentare l’occasione migliore per dire che quest’odio e questa violenza non ci fanno paura? l’occasione migliore per riaffermare che il nostro modo di vivere, il nostro modo di concepire e guardare l’universo, non scomparirà sotto i colpi dei mitra al Bataclan? Forse allora, piuttosto che consegnare presepi nelle scuole assetati di sangue e voti, sarebbe il momento di ritrovarsi a cantare orgogliosamente nelle piazze “Adeste fideles”; forse allora, davanti al nostro cielo stellato, offuscato da qualche nuvola nera, sarebbe il momento di essere pronti, con un gesto potente e profondamente sensato, di rischiarare la notte con le luci di un albero di Natale.