-di Filippo Del Monte- Gli scontri tra israeliani e dimostranti palestinesi a Gerusalemme ed i raid degli aerei con la Stella di David su Gaza hanno riportato Israele al centro delle cronache internazionali; l’assenza di notizie sulla condotta dello Stato ebraico nel Levante non deve però farci pensare ad una politica “quiescente” da parte di Netanyahu, che, anzi, in questi mesi è riuscito a ritagliarsi uno spazio interessante nelle complicate vicende mediorientali. La guerra civile siriana e l’espansione dello Stato islamico sono due minacce lungo il confine settentrionale israeliano da non sottovalutare ma Tel Aviv è tendenzialmente impossibilitata a muoversi a causa della strategia del suo principale alleato: gli Stati Uniti.
La diplomazia di Washington ha faticato non poco a mettere insieme i Paesi della coalizione anti-ISIS, una delle condizioni per cui l’Arabia Saudita ha accettato di intervenire (pur con molte ambiguità) contro il Califfato è stata quella di tenere Israele fuori dai giochi. A quel punto, nonostante Israele avesse già condotto raid contro postazioni militari e convogli siriani, la Casa Bianca preferì prendere contatti con Netanyahu invitandolo a sospendere qualunque operazione per non inficiare la nascita della coalizione. Per il governo di Tel Aviv le scelte erano due: accettare di fare un passo indietro o aprire una nuova crepa nei difficili rapporti con Obama e rischiare che le Potenze sunnite agissero per proprio conto (e quindi senza un “rappresentante” degli interessi israeliani in seno alla coalizione). Tra i due mali Israele scelse il minore, si preferì sospendere qualunque tipo di attività militare concentrandosi su una fine opera diplomatica di avvicinamento con le Potenze rimaste estranee alla coalizione ma comunque nemiche dell’ISIS e diffidenti nei confronti dei ribelli siriani (Egitto e Russia su tutte).
I bombardamenti contro le truppe di Assad possono trarre in inganno sulle reali intenzioni di Israele sulla Siria. Gli attacchi erano messaggi indiretti nei confronti dell’Iran, di cui Assad è proconsole sulla costa mediterranea, anche perché tra lo Stato ebraico ed il regime di Damasco vige una sorta di patto non scritto che assicura una stabilità che con altri interlocutori non sarebbe garantita. Da questo derivano non solo la diffidenza israeliana nei confronti di tutte le formazioni ribelli finanziate ed armate dagli occidentali, ma anche una certa ostilità verso la condotta anti-assadista dell’amministrazione statunitense. Lo stesso ragionamento è stato fatto anche da al-Sisi al Cairo e da Putin a Mosca. La Russia sta tenendo in piedi Assad a suon di bombe su ISIS e milizie ribelli per portare avanti la sua penetrazione nel Mediterraneo orientale; quindi è naturale che ogni tentativo saudita-occidentale di spodestare il raìs damasceno sia visto come un attacco diretto alle prerogative russe nell’area.
I malumori di Netanyahu sono stati intercettati da Putin ed abilmente sfruttati; non a caso alla vigilia delle operazioni contro lo Stato islamico i generali russi si sono incontrati con i colleghi israeliani per definire non solo le condizioni per non urtare i rispettivi interessi, ma anche per capire se fosse possibile (con Israele in posizione logicamente defilata) far fronte comune. Certo, deve essere stato difficile per il Cremlino far accettare a Tel Aviv la presenza di soldati iraniani in Siria, ma sicuramente delle garanzie saranno state richieste a Teheran e quello che premeva a Netanyahu era di garantire la sicurezza dei suoi confini pur senza entrare in guerra ufficialmente. Sotto certi aspetti si potrebbe dire che gli aerei e le navi russe stiano facendo il lavoro sporco anche per Israele. Questa collaborazione tra Israele e Russia segna il passo per due motivi: è l’ennesimo fallimento strategico di Obama in Medio Oriente e la conferma del ritorno alla linea “davidica” per i conservatori israeliani.
Da qualche tempo i vertici israeliani hanno alletato il legame storico e “speciale” che legava Tel Aviv a Washington; questo consente allo Stato ebraico una maggiore autonomia nelle scelte di politica regionale ma non rappresenta assolutamente un “cambio di casacca”, si resta fermamente ancorati al campo occidentale (sarebbe impossibile il contrario) ma con rapporti se non proprio paritari molto vicini ad esserlo. L’atteggiamento della diplomazia statunitense in questo caso non è stato conciliante, come se la strategia del “Pivot to Asia” non sia solo ed esclusivamente il disimpegno degli USA dal Medio Oriente ma anche la perdita di ogni legame con gli alleati dell’area. Un errore grossolano che pesa sul giudizio che Netanyahu ed i suoi collaboratori hanno dell’America obamiana e che li porta a lanciare segnali a Stati diversi da quelli “classici” della Politica estera ebraica.
In questa fase di transizione a Tel Aviv stanno ricalibrando i loro obiettivi di Politica estera. Israele sta cercando punti di riferimento per garantire la propria sicurezza e, visti gli ultimi attriti, il suo sguardo di certo non si posa su Washington con la stessa convinzione di qualche anno fa.