– di Filippo Del Monte – Il 4 marzo l’Italia si è addormentata liberal-progressista e si è svegliata grillino-leghista. Questa la sintesi che i principali giornali hanno fatto delle Elezioni politiche dello scorso 4 marzo. In Francia il quotidiano “Le Monde” ha titolato emblematicamente “Cataclysme électoral en Italie” ; hanno vinto i populisti ed hanno perso i moderati; la realtà ha sconfitto la narrazione. Di analisi del voto se ne stanno facendo tante, le formule fantapolitiche di stampo scalfariano fioccano; noi vogliamo invece concentrarci su quello strano animale sociale chiamato “elettore”, ingranaggio fondamentale del sistema democratico.
Al di là dei partiti di riferimento l’elettore ha cambiato ben poco: se mobilitazione popolare c’è stata, essa s’è fermata alle urne, è stata elettorale e non “politica” in senso più ampio. L’elettorato ha lanciato un messaggio chiaro di scontento ma non ha fissato obiettivi a breve e lungo termine da seguire. Scordiamoci grandi processi innescati dalle masse perché in Italia questo non è possibile, nessuna delle grandi campagne d’opinione della nostra storia unitaria (Risorgimento, Interventismo, Sessantotto) è stata voluta o determinata dalla massa, dal “mucchio selvaggio”; anzi, sono sempre state le élites politico-culturali a declinarle ed interpretarle per me masse e – molte volte – perfino contro il loro sentire profondo.
Il popolo italiano, dove non si possa definire “deluso”, resta comunque fortemente “apolitico”, meglio ancora, “impolitico”. Il cittadino chiede di poter vivere e lavorare in pace, di non essere chiamato continuamente ad assumersi responsabilità da cui rifugge perché considerate “troppo grandi” per lui. Certo, si dirà che votare MoVimento 5 Stelle o Lega implica la scelta di due forze politiche che fanno dell’attivismo, del consenso popolare e della partecipazione dei punti fermi. Ma l’attivismo è proprio di quadri e militanti, il consenso popolare è – come in ogni società di massa – passivo e la partecipazione si riduce al momento elettorale che è, per l’appunto, solo un momento – seppur importante – della politica.
Gli Italiani il 4 marzo non hanno voluto mettere in evidenza il proprio “potenziale di mobilitazione” ma, in sostanza, delegare la gestione politica alle forze che sentono più vicine. Hanno chiesto la restaurazione dell’ordine attraverso il “disordine” populista percepito comunque come meno pericoloso dei tentativi di scardinamento dei valori e della società attuati dal centrosinistra. Questo ordine da restaurare non è quello nazionale in prima battuta (si vedano i risultati di Fratelli d’Italia a tal proposito) ma quello individuale, quello delle “percezioni” diffuse, del subconscio elettorale se si vuole. Sia chiaro, nessuna campagna elettorale nazionale si gioca realmente sui programmi bensì sulla costruzione di grandi miti collettivi; quest’ultima campagna invece fa eccezione perché si è giocata sulle percezioni.
Mobilitazione passiva appunto e non attiva; consenso individuale interiorizzato e non scelta politica e pubblica. Questo voto è stato realmente – e la sua esistenza non implica per forza la bontà di tale scelta – frutto della “rivoluzione del buonsenso” restauratrice della quotidianità. Il popolo italiano ha votato in modo tale da lanciare questo messaggio: “Vogliamo restare passivi, non chiamateci in causa. Ecco perché abbiamo affidato la cosa pubblica a chi ha la forza di governare senza interpellarci ma facendo i nostri interessi”.
I risultati del 4 marzo non ci consegnano dunque un’Italia politicizzata, tutt’altro, perché molte volte votare “populista” è uno dei modi per tornare alla propria vita normale e la mobilitazione politica è invece espressione di situazioni eccezionali e dunque extra-ordinarie che la massa – in quanto tale – mal digerisce.