-a cura di Luca Proietti Scorsoni- Devo dirlo subito a scanso di equivoci: lo scrivente è fazioso. Mi spiego meglio: chiedere al sottoscritto di vergare un’analisi asettica su Ted Cruz è un po’ come pretendere di far tratteggiare un ritratto sereno della Juventus da parte di Mughini. Pertanto la passione si andrà inevitabilmente ad incuneare nelle pieghe di questa pagina, al pari di un tifo spontaneo, ma supportato da notevoli dosi di razionalità, il cui radicamento sarà visibile negli interstizi collocati tra un carattere e l’altro. Voglio esternare proprio tutto: sono stato tra i primi ad aver aderito al comitato italiano in appoggio della candidatura del senatore texano. Insomma, non figuro certamente come quello dell’ultim’ora: sul carro ci son salito quando non ancora tutti i bulloni erano saldi e gli assi venivano registrati alla meglio. Poi però, pian piano, su quel vessillo raffigurante un fuoco sacro e americano – aggettivi quest’ultimi che per lo statunitense medio tendono a coincidere – hanno iniziato a convergere dapprima timide curiosità e dopo, cioè anche ora che sto digitando i tasti del mio portatile, le certezze si sono incasellate con una frequenza sempre maggiore, al pari di tanti mattoncini lego prossimi a delineare una realizzazione sorprendente ma dalle fattezze assai solide e ben rassicuranti. D’accordo, vadano le premesse ridondanti, potrebbe insinuare qualcuno, ma in concreto perché proprio Ted Cruz? Ho motivo di credere che nessun altro incarni meglio di lui l’archetipo del repubblicano DOC, anzi, forse è il caso di dire GOP, visto che quest’ultimo è il marchio di garanzia per eccellenza relativo alla pregevolezza libertaria di una Destra con la maiuscola. Si, GOP. Tre lettere per indicare una galassia di pluralismo valoriale la cui mirabile sintesi politica e culturale viene sancita all’interno di un unico soggetto partitico. E la reiterazione del numero filosoficamente perfetto è una costante nel Partito Repubblicano. Del resto i vocaboli da snocciolare alla maniera di un rosario laico sono, e rimarranno sempre, vita, libertà e proprietà. Piuttosto, consentitemi di pronunciarli nell’idioma concettualmente più adeguato: life, liberty, property. Solamente il suono provocato dalla loro intonazione consente di materializzare momenti epici di una narrazione trionfale, come quando all’interno di una tavola calda di Washington, all’inizio degli anni ’80, un economista tracciò una curva a mo’ di campana che poi avrebbe dato l’avvio alla più grande rivoluzione fiscale che la storia ricordi. Infine, per terminare questo ragionamento a metà tra il pitagorico e l’eclettico, se in un ipotetico gioco dell’enigmistica congiungessimo tre punti antropomorfi, aventi i nomi di Goldwater, Reagan e Cruz, di certo apparirebbe per magia l’immagine di un elefantino. Si, proprio quell’elefantino. Ted Cruz forse non è facilmente commestibile per i nostri palati radical-chic allettati, come giustamente sostiene Alberto Mingardi del Bruno Leoni, più dagli scaffali intrisi di “politically correct” ordinatamente presenti alla Feltrinelli piuttosto che da quei saggi, magari ruvidi, ma necessari per ottenere una visione corretta ed articolata delle dinamiche innescatesi tra Miami e Los Angeles. Cruz, al pari del senatore dell’Arizona e dell’attore assurto agli oneri e agli onori della Casa Bianca, è cosciente che l’unico Stato possibile è quello in grado di ridurre il proprio raggio d’azione, di tutelare e valorizzare la concorrenza e sufficientemente saggio da reputare la libertà individuale al pari di un simulacro vivo e vegeto. Insomma, Ted Cruz ha ragione da vendere nel tutelare i principi ispiratori della Costituzione americana, questa sì la più bella del mondo, almeno per noi irriducibili liberali. Una Carta ancora odorosa di quell’infuso rosso che a Boston si mescolò con l’azzurro dell’Atlantico per poi dare il là alla rivolta dei coloni che in fondo si ribellarono al giogo fiscale anche per noi: per me e te che leggi. Ora, a pochi giorni dalle primarie nello Stato di New York, il nostro può davvero contendere seriamente a Trump la leadership del campo conservatore. Del resto le straordinarie, e a volte sbalorditive, vittorie nei precedenti appuntamenti elettorali sono lì a dimostrare che la proposta di Cruz è piena di sostanza fusionista arricchita con quel pragmatismo tipico dell’America profonda che poi, per intenderci, è quella votante ai caucus e alla primarie. Speriamo vada bene, sul serio. Go…P Bless America!