– di Filippo Del Monte – Budapest, serata del 23 ottobre 1956. La nebbia cala sulle rive del Danubio, il freddo del primo inverno è arrivato silenzioso ma inesorabile come ogni anno. Dal balcone d’un vecchio e sontuoso palazzo d’epoca asburgica sventola una bandiera ungherese bucata al centro; lo stemma dello Stato con la stella rossa è stato asportato. E’ il drappo della rivolta, il simbolo della libertà, l’emblema di chi vuole l’Ungheria libera dalla cappa sovietica e dal grigiore del socialismo reale.
Nei giorni precedenti erano giunte notizie confortanti dalla Polonia: il capofila dei comunisti “revisionisti” Wladyslaw Gomulka era stato riabilitato dopo un lungo ed estenuante braccio di ferro con l’Unione Sovietica. Nei corridoi dell’Università di Tecnologia ed Economia di Budapest – la fucina della futura classe dirigente del “paradiso socialista” ungherese – si iniziò a parlare sottovoce della possibilità di riformare il sistema, di poter ridare all’Ungheria la libertà perduta con la guerra e l’occupazione sovietica. Da qualche tempo il revisionista magiaro Imre Nagy aveva imboccato il difficile cammino verso la costruzione di un socialismo “diverso”, cucito su misura per gli ungheresi e questo aveva destato i sospetti dei custodi dell’ortodossia rossa al Cremlino.
Per quel 23 ottobre – seguendo l’onda del Circolo Petőfi degli scrittori dissidenti tanto amati dagli studenti – i leader universitari di Budapest avevano convocato una grande manifestazione spontanea, senza sigle e senza guide, in favore della Polonia e – anche se nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo apertamente – delle riforme in Ungheria. Intorno alle 15.00 sotto la statua del poeta nazionale Petőfi iniziarono a radunarsi gruppi di persone; dapprima timide, poi sempre più convinte. La vigilanza sembrava allentata, la temuta ed odiata polizia segreta apparentemente non reagì a quel massiccio assembramento. Tante bandiere ungheresi, nessuna bandiera rossa, molti cori patriottici e nessun riferimento al Partito dei Lavoratori Ungheresi (comunista) nel corteo confermarono quanto era stato deciso in una accesissima assemblea nell’aula magna dell’università il giorno prima: l’uscita in massa dalla Gioventù Comunista.
Il corteo era arrivato fin sotto il meraviglioso palazzo del Parlamento senza incontrare resistenza ed aveva invocato a gran voce la presenza di Imre Nagy che non si fece attendere. Probabilmente preso dall’insicurezza il capo dei revisionisti non seppe fare di meglio che invitare gli studenti ad aspettare pazientemente le “decisioni del Partito” ricevendo non pochi fischi per aver esordito appellando la folla con il trito e ritrito termine di “compagni”. Quei fischi impensierirono quei dirigenti filo-sovietici che dalle finestre del palazzo, nascosti alla vista dei dimostranti dalle tende spesse e pesanti, osservavano la manifestazione. nelle stanze segrete del Partito dei Lavoratori si decise di passare agli avvertimenti: il segretario generale Ernő Gerő – uno stalinista di lungo corso – invitò in un discorso radiofonico gli studenti ad abbandonare qualunque progetto “controrivoluzionario” avessero in mente e di attendere le decisioni del Partito, pena l’attivazione d’ogni misura necessaria da parte del governo.
Gli stalinisti avevano fatto male i loro conti: sì i soldati erano stati schierati agli incroci delle principali strade della città, sì potevano rappresentare un deterrente fortissimo per pochi civili disarmati; ma nessuno immaginò che quei militari – in gran parte ragazzi di leva guidati da ufficiali ferventi patrioti – potessero prendere l’iniziativa e schierarsi dalla parte della “controrivoluzione”. Dai berretti dei militari – di foggia sovietica – furono strappate le stelle rosse, in breve sostituite da nastrini con i colori della bandiera ungherese, ed i posti di blocco furono smantellati. Sempre più persone, molti giovani, si unirono al corteo degli universitari; manifestazioni di giubilo nei confronti dei soldati si ripeterono in tutta la città.
Nessuno aveva intenzione di darla vinta a Gerő ed alla sua cricca di stalinisti; un gruppo di volenterosi distrusse l’enorme statua di Stalin che “vegliava” su Budapest ed all’indirizzo di quel ferreo volto baffuto ormai decapitato fu pronunciata una dura requisitoria da parte di alcuni studenti che chiedevano la libertà per l’Ungheria oppressa dal tallone russo. A tratti dall’enorme corteo – che verso sera aveva raggiunto 200.000 partecipanti – si staccavano pattuglie che prendevano di mira le tante biblioteche sovietiche presenti in città dandole alle fiamme. Verso le 18.00 gli stalinisti dovettero fare i conti con la realtà: quella che era nata come una semplice dimostrazione studentesca s’era trasformata in una gigantesca protesta anti-sovietica. L’aria di rivolta si respirava dietro ogni angolo.
Davanti alla sede della radio nazionale fu letto il programma di 16 punti stilato dal Circolo Petőfi che tra le altre cose richiedeva il ritiro immediato delle truppe sovietiche dal Paese. Dopo alcuni tentennamenti il direttore della radio autorizzò una delegazione di manifestanti a leggere il documento ai microfoni della stazione; ad attendere quei ragazzi nelle stanze della radio c’erano però alcuni agenti in borghese della polizia politica, la temutissima AVH, ed i mandati d’arresto. All’esterno gli agenti in uniforme dell’AVH spararono sulla folla provocando alcune vittime. La reazione popolare non si fece attendere: pietre e bottiglie incendiarie furono scagliate contro le odiate “giubbe blu” dell’AVH. Qualcuno impugnò i fucili e le mitragliatrici lasciate a terra dai soldati rivoltosi. In poco tempo dal palazzo della radio la guerriglia urbana si estese in tutta la città. La situazione era ormai ingestibile.
In una città ormai in mano ai dimostranti un tumultuoso Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori decise di chiedere l’intervento sovietico. Fu istituito un Comitato militare con lo scopo di coordinare gli sforzi dell’AVH – praticamente l’unico corpo armato rimasto fedele al governo comunista – con quelli dell’Armata Rossa. All’annuncio di queste decisioni i manifestanti decisero di rispondere con la forza: il 23 ottobre non sarebbe stato un giorno come gli altri e quella protesta non sarebbe stata fine a sé stessa.
A notte inoltrata Budapest era illuminata a giorno, combattimenti strada per strada e casa per casa ormai avevano fatto ripiombare la capitale ungherese in guerra. Dentro le ambulanze i governativi avevano nascosto fucili e bombe da consegnare occultamente all’AVH. Studenti armati e militari ribelli sequestrarono le ambulanze e molti civili si armarono per far fronte all’ormai sicuro attacco sovietico. L’ultimo assalto vittorioso della giornata fu lanciato – come ultimo sfregio nei confronti degli stalinisti – proprio alle sedi della polizia segreta. Fu una vera soddisfazione veder sfilare, davanti ai fucili spianati dei patrioti ribelli, con le mani alzate in segno di resa e gli occhi bassi quegli agenti che fino al giorno prima, con aria da gradassi, avevano terrorizzato la popolazione con le loro angherie e le loro minacce.
La bandiera tricolore dell’Ungheria ribelle sventolava in tutta Budapest. La miccia della rivoluzione era stata innescata e quella fredda notte danubiana era in realtà riscaldata dagli ardenti sogni di libertà e dalla convinzione di dover riscattare una Patria umiliata dai comunisti “servi sciocchi” di Mosca. Il resto è storia; il 4 novembre, dopo dieci giorni di furiosi combattimenti i carri armati sovietici ebbero la meglio sulla volontà e l’eroismo dei patrioti magiari e l’Ungheria fu “normalizzata” secondo le richieste di Nikita Chruscev. Eppure la rivoluzione ungherese del ’56 non poté essere sconfitta nel campo delle idee e passò alla storia come il primo vero sussulto di libertà dei popoli del blocco sovietico; una libertà diversa da quella dell’Occidente liberal-capitalista, una libertà nazionale innanzitutto e soprattutto rispettosa delle tradizioni, della cultura e della storia dell’Ungheria.